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3- Dentro le lotte: autorganizzazione e riappropriazione
"...come muoversi dentro e contro il 3+2? Quali rivendicazioni portare avanti ora che la riforma è una realtà e non una prospettiva? Come promuovere autorganizzazione e costruire dal basso i collettivi in un’università che comprime non solo i tempi e gli spazi dello studio, ma anche quelli della socialità e dell’aggregazione politica?"


Negli anni in cui veniva proposta, approvata e infine applicata la riforma Berlinguer-Zecchino, ossia il 3+2, il movimento studentesco si è spesso diviso tra chi riteneva che l’unica posizione sostenibile fosse il rifiuto totale della riforma e quindi la lotta per bloccarla, e chi invece la riteneva emendabile, o comunque credeva che la sua applicazione avrebbe aperto spazi in cui il movimento potesse giocare un ruolo significativo (vedi i corsi autogestiti con riconoscimento dei crediti).
Ora la riforma è stata almeno parzialmente applicata e le sue conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: aumento vertiginoso dei ritmi di studio a fronte di un livello di approfondimento e di rielaborazione dei contenuti sempre minore, compressione dei tempi di vita degli studenti, aumento delle selezione sia diretta, tramite i numeri chiusi, sia indiretta, a causa dell’aumento generalizzato delle tasse universitarie. E’ evidente quindi l’errore politico di chi non ha ritenuto una priorità la mobilitazione contro il 3+2, non tanto perché esistessero realmente le condizioni per impedirne l’approvazione, quanto perché un vissuto di analisi radicali e di lotte reali contro la riforma sarebbe stato un bagaglio fondamentale per chi ora si trova a dover reinventare forme di autorganizzazione, di conflittualità e di ribellione all’interno dell’università riformata.
Ed eccoci quindi al nodo centrale del discorso: come muoversi dentro e contro il 3+2? Quali rivendicazioni portare avanti ora che la riforma è una realtà e non una prospettiva? Come promuovere autorganizzazione e costruire dal basso i collettivi in un'università che comprime non solo i tempi e gli spazi dello studio, ma anche quelli della socialità e dell'aggregazione politica?
Non esistono ovviamente risposte esaurienti a queste domande: le risposte le cercheremo quotidianamente in anni di sperimentazioni e di errori, di periodi di lotta e di periodi di riflusso, di elaborazioni collettive da sottoporre sempre alla prova dei fatti.
Possiamo però provare a delineare alcuni scenari e a tentare un primo parziale bilancio delle mobilitazioni degli ultimi anni.
Sono almeno tre le prospettive da cui è possibile affrontare la questione, tre piani che in realtà vanno spesso a intersecarsi nella complessa realtà dell’università del 3+2.

Il primo è legato ai corsi/seminari autogestiti, cioè all’idea di ricavarsi spazi di libera circolazione dei saperi e di costruzione e condivisione di immaginari diversi da quelli che ci vengono sottoposti nei curricoli universitari. Il salto di qualità rispetto a semplici percorsi tematici con cicli di assemblee o conferenze attorno ad uno stesso tema, che ovviamente sono sempre esistiti, starebbe nella possibilità di vedersi riconosciuti dall’Ateneo i crediti formativi relativi a queste attività, creando quindi un meccanismo per cui la logica stessa dei crediti, funzionale alla quantificazione e alla mercificazione dei saperi, si ritorcerebbe contro i suoi stessi promotori andando a incentivare la circolazione di sapere critico nelle facoltà.
A Bologna abbiamo vissuto due sperimentazioni di corsi autogestiti, non a caso nelle due facoltà, Storia e Scienze Politiche, che hanno visto i movimenti studenteschi più attivi in questi ultimi anni.
Tracciare un bilancio di queste esperienze è difficile e contraddittorio, perché se è vero che si è dimostrata la possibilità di inserire percorsi di sapere critico all’interno dei curricoli del nuovo ordinamento, si sono però incontrati diversi nodi da sciogliere. Il primo riguarda la capacità di far sì che la differenza tra i corsi ordinari e quelli autogestiti stia anche nelle forme e non solo nei contenuti: creare spazi di discussione orizzontale, di elaborazione comune, di condivisione reale dei saperi e delle esperienze, evitando la dinamica della lezione frontale e dell’insegnamento depositario.
Il secondo consiste banalmente nel fatto che i corsi autogestiti devono essere attività in grado di catalizzare l’attenzione del numero maggiore possibile di studenti, in caso contrario si rischia di entrare in una logica di cultura alternativa di nicchia che non aiuta realmente lo sviluppo dei movimenti ed anzi rischia di allontanarci da quegli stessi studenti con cui cerchiamo di stabilire un contatto. Inoltre i corsi devono comunque inserirsi in un percorso di critica radicale alla riforma e al meccanismo dei crediti, per metterne a nudo le contraddizioni e non rischiare di legittimare indirettamente il sistema.
I seminari autogestiti e riconosciuti restano quindi uno strumento utile e importante, ma a patto che vengano interpretati nell’ottica di un modello didattico realmente alternativo e contrapposto a quello dominante.


Il secondo filone riguarda le vertenze concrete sul diritto allo studio, che non solo restano attuali e non certo superate, ma che anzi sono ancora più imprescindibili in un'università sempre più selettiva e in generale in un sistema d'istruzione che discrimina sempre più gli studenti provenienti dalle fasce sociali più deboli.
In questi anni a Bologna abbiamo seguito e promosso, grazie al lavoro dei collettivi di facoltà, numerose vertenze cresciute a volte anche inaspettatamente in seguito a situazioni particolarmente gravi. Ci limitiamo a citarne alcune per evidenziare le contraddizioni del sistema 3+2.
La battaglia contro ogni forma di numero chiuso sia per l’accesso alle lauree brevi che per le specialistiche. Sui test d’accesso alle specialistiche si sono concentrate gran parte delle mobilitazioni di questi anni, probabilmente perché nella percezione soggettiva dello studente essere escluso dagli ultimi due anni di un percorso già intrapreso nella propria facoltà viene vissuta come una grave ingiustizia, e si crea quindi un clima di rabbia e di indignazione che può anche svilupparsi in una mobilitazione radicale. Come costruire mobilitazione anche contro i numeri chiusi alle lauree triennali è invece un terreno ancora da esplorare.
Le battaglie contro gli aumenti delle tasse, anche in questo caso concentratesi soprattutto sugli aumenti per le specialistiche, che andavano a sancire prima ancora dei numeri chiusi un meccanismo brutale di selezione di classe fin dal primo anno di attuazione piena della riforma Zecchino.
La richiesta di più appelli d'esame e meglio distribuiti durante tutto l'anno, per evitare che gli studenti siano costretti a dare esami a ripetizione nei periodi delle sessioni e per rendere più agevole il raggiungimento delle soglie di crediti necessari per avere diritto alla borsa di studio.
La vertenza sulla mensa, che a Bologna ha ha toccato momenti di conflitto particolarmente significativi.
La richiesta di più borse di studio, di criteri legati esclusivamente al reddito e non al merito, o quantomeno la richiesta di pagare effettivamente la borsa di studio a tutti gli idonei, eliminando quella figura dello studente idoneo non assegnatario che rappresenta forse più di ogni altra lo scandalo del diritto allo studio negato nell’università di Bologna.

Molte altre sarebbero le linee di intervento e le possibili campagne da promuovere nell’ambito del diritto allo studio nell’università riformata, che per motivi strutturali o per limiti soggettivi non si sono sviluppate in questi anni. In particolare ci sembra fondamentale iniziare un ragionamento e una critica sul modo in cui l’Ateneo gestisce e investe i propri fondi: è palese la contraddizione tra i tagli al diritto allo studio e i fondi dirottati su aziende private “amiche” o destinati a strutture elitarie come il Collegio d’Eccellenza.

Il terzo filone è quello su cui la nostra elaborazione e le nostre esperienze di conflitto sono sicuramente meno avanzate, ma che rappresenta una scommessa per i prossimi anni. Sentiamo la necessità di criticare con forza il modello attuale di università, del tutto funzionale all'idea di sapere-merce, di sapere parcellizzato da spendere sul mercato del lavoro, di un sapere quindi che ripropone e legittima i modelli culturali dominanti.
Una delle sfide di questi anni sarà quindi quella di iniziare a immaginare, discutere, proporre e praticare un’idea diversa e contrapposta di università: un’università non gerarchica e non autoritaria, cooperativa e non competitiva, che aiuti a sviluppare coscienza critica.

Abbiamo tentato una descrizione dei terreni su cui ci stiamo muovendo e intendiamo continuare a muoverci. Alla base di tutto resta comunque la consapevolezza che ci troviamo di fronte a un ampio disegno di restrutturazione del sistema formativo in senso privatistico, aziendale, manageriale. A portare avanti questo disegno sono i vari governi e ministri indifferentemente di centro-sinistra o di centro-destra, ma anche i rettori, i presidi e i baroni che si rispecchiano totalmente in tali politiche. E se il meccanismo è enorme e apparentemente impossibile da contrastare, gli ingranaggi di questo meccanismo si trovano nelle nostre facoltà, e per questo esiste la possibilità reale di creare conflitto, di inceppare questi ingranaggi e di rimettere in discussione dal basso questo modello di università.

Alla costante negazione dei nostri diritti come studenti, al processo di destrutturazione dell’università pubblica in funzione del sistema produttivo, al processo di precarizzazione a cui questo sistema universitario ci costringe rispondiamo in modo chiaro e netto, con l’azione diretta per la riappropiazione di ciò che ormai da tempo ci viene costantemente tolto. Quello che ogni giorno ci sottraggono si chiama diritto allo studio, che comprende anche il diritto a una casa, a trasporti e mense gratuiti, libri garantiti.
Consideriamo l’azione diretta il più importante strumento di lotta contro l’attuale sistema universitario. Vediamo ogni giorno a cosa servano la delega e la rappresentanza negli organi collegiali, constatiamo quanto sia inutile cercare dall’interno dell’istituzione università una risposta ai problemi di cui essa stessa è la causa. Con il potere universitario non è possibile concertare, trovare una soluzione condivisa se non al ribasso, i rapporti di forza sono totalmente a svantaggio degli studenti, che sedendo nei consigli non fanno che legittimare un sistema dove non hanno reale peso. La loro funzione può essere solo quella di riferire il dibattito interno agli organi e comunicare la posizione degli studenti che rappresentano. Con l’azione diretta tutti gli studenti prendono la parola di fronte alla burocrazia universitaria dimostrando la loro reale forza come soggetto sociale attivo.
Le condizioni materiali a cui siamo costretti in questa città rendono le nostre vite precarie e sempre più ricattate da un caro vita dilagante. Ripartendo dai luoghi della nostra quotidianità abbiamo sperimentato che la riappropriazione di ciò che ci viene quotidianamente negato è possibile, che l’azione diretta ed il conflitto attraversano case, mense, treni, cinema, aule, strade, piazze
Attraverso l’autorganizzazione e la modalità assembleare affermiamo la necessità di lottare dal basso dentro e fuori l’università, cercando di costruire ambiti di connessione e di lotta nella realtà territoriale in cui viviamo.
Siamo un segmento del precariato sociale, una porzione della società che il dominio vorrebbe silenziosa e subordinata; siamo una parte della catena capitalistica che rifiuta se stessa, siamo una risposta attiva e soggettiva alla forma contemporanea del dominio. Una “ripresa” che necessita di confrontarsi con risposte provenienti da altri luoghi e da altre componenti della classe-parte, che sa bene che per comiciare a costruire un “fuori” deve far leva sule contraddizioni interne alla macchina capitalistica.

 

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