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4- Mensa Universitaria privatizzata: i nostri bisogni, i loro profitti
"...la mensa universitaria di Piazza Puntoni, esternalizzata dall’ARSTUD alla privata Concerta sfrutta ordinariamente i suoi dipendenti con condizioni di lavoro e dispositivi di controllo degni delle catene della grande distribuzione che per anni hanno rappresentato il modello dell’azienda totale...
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Se precarietà significa negazione di diritti, sfruttamento, mancanza di certezze sulle quali costruire il proprio futuro ma anche la propria quotidianità, è evidente che la mensa universitaria di Bologna sia un luogo dove vanno ad incrociarsi perfettamente le diverse direttrici che determinano lo studente quale soggetto del precariato metropolitano.
Appaltata dall’Arstud (azienda regionale per il diritto allo studio) alla privata Concerta, la mensa di Piazza Puntoni presenta prezzi inaccessibili e strutture insufficienti. Con 5,80 euro a pasto costa tre volte in più rispetto alla media delle altre città italiane, mentre i suoi duecento posti neanche lontanamente possono far fronte alle esigenze dell’intera zona universitaria. Questi sono i frutti della scelta di attribuire a quello che dovrebbe essere un servizio primario per l’università logiche puramente aziendali, utili solo ad accrescere i profitti di un privato considerando le necessità degli studenti come semplice miniera d’oro in grado di garantire entrate.
La gestione della mensa bolognese corrisponde quindi ad esplicita negazione del diritto allo studio. Che a sua volta si traduce in precarietà studentesca, riferita non soltanto all’università pensata come fabbrica di precari ma alle condizioni materiali di vita dello studente. Vita determinata non dalla libertà di studiare e socializzare ma da tasse, affitti, trasporti e libri i cui costi parlano chiaramente di selezione di classe. In questa vita che a causa di continui sbarramenti economici e didattici non garantisce nulla di certo anche per il futuro più immediato, fatta di ritmi di studio forsennati e spesso della necessità di dover lavorare, anche il bisogno primario di mangiare si legge precarietà. L’idea di garantire a tutti gli studenti la possibilità di mangiare gratuitamente o almeno in maniera accessibile in base al reddito e in un luogo che possano sentire realmente loro è del tutto cancellata. Nell’università-azienda, del resto, sarebbe un non senso.
Invece i baroni-manager i loro conti li hanno fatti bene. Chi può permettersi prezzo e fila vada pure in mensa, dalle dimensioni e dal servizio razionalmente pensato per massimizzare i profitti. I prezzi possono tranquillamente essere alti, tanto per riempirla non ci vuole molto e poi L’Arstud ha pensato bene di poter riversare parte delle borse di studio su chiavette elettroniche per la ristorazione: è chiaro che se non consumi il credito perdi i soldi, tanto vale andare in mensa anche se è cara. Tutti gli altri possono anche saltare il pranzo, non serve mica ad accumulare crediti formativi. Oppure possono accomodarsi in un bel locale o ristorante, così i proprietari sono contenti. O ancora possono andare a mangiare a casa, poco importa se ci si perde qualche ora preziosa e ci vogliono due euro per l’autobus. Anzi, tanto meglio per l’Atc. Così il cerchio si chiude e l’ipermercato Bologna può sfruttare gli studenti appieno, in ogni loro necessità, senza lasciare niente al caso.
Del resto la concorrenza è strumento di ricatto anche nel mondo della formazione. “Pensi che le tasse siano eccessive o la mensa troppo cara? Arrivederci e grazie, vai pure da un’altra parte o rinuncia agli studi. Siamo sì un’azienda ma non ci preoccupa l’insoddisfazione del cliente. Dietro di te ce ne sono migliaia pronti a sostituirti nella prestigiosa università dell’attraente Bologna”.

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