5- Lavorare per
l’Università Sfruttamento e dispositivi totalizzanti nel cuore dell’Ateneo "Se precarietà significa negazione di diritti, sfruttamento, mancanza di certezze sulle quali costruire il proprio futuro ma anche la propria quotidianità, è evidente che la mensa universitaria di Bologna sia un luogo dove vanno ad incrociarsi perfettamente le diverse direttrici che determinano lo studente quale soggetto del precariato metropolitano..." |
L’abbraccio mortale
tra università e precarietà risulta strutturale e
ben saldo da qualsiasi prospettiva si provi ad analizzare il modello
dell’ateneo-azienda. Non solo un sistema formativo pensato e
gestito con l’unica finalità di sfornare
lavoratori precari pronti da sacrificare sul mercato. Non solo
l’inesistenza di un vero diritto allo studio che attraverso
elevatissimi costi di accesso ai servizi condanna gli studenti ad una
condizione di precarietà esistenziale quotidiana.
L’università infatti non si accontenta di essere
luogo virtuale o generico di precarietà e se ne fa
promotrice diretta entro le sue stesse mura, applicando con cinica
coerenza il modello produttivo che da anni contribuisce a costruire e
preservare.
Luogo paradigmatico di tale realtà è la mensa
universitaria di Piazza Puntoni. Esternalizzata dall’ARSTUD
alla privata Concerta, offre agli studenti posti limitatissimi e prezzi
inaccessibili e, come altra faccia della stessa medeglia, sfrutta
ordinariamente i suoi dipendenti
con condizioni di lavoro e dispositivi di controllo degni delle catene
della grande distribuzione che per anni hanno rappresentato il modello
dell’azienda totale. I contratti Concerta sono ancora in
maggior parte a tempo indeterminato, ma ciò non fa altro che
confermare che la precarietà è oggi condizione
generalizzata, non più definibile in termini astrattamente
contrattuali.
I livelli salariali forniscono la prova più immediata:
grazie al perenne ricatto della disoccupazione e nascondendosi dietro
una crisi che in realtà non c’è (la
privatizzazione dilagante sta aprendo ad aziende come la Concerta un
mercato vastissimo), le buste paga parlano di stipendi bassissimi anche
per dipendenti qualificati come i cuochi che altrove potrebbero
percepire più del doppio. E indipendentemente dalla
tipologia di contratto, un efficace strumento di ricatto è
comunque garantito dalla clausola che prevede di poter essere
trasferiti arbitrariamente anche da un giorno all’altro. Gli
incentivi per i dipendenti “leali”, invece, passano
per premi di produzione che con criteri di attribuzione
tutt’altro che trasparenti hanno legalmente sostituito i
vecchi regali fuori busta, in nero.
Se i salari sono bassi, le condizioni di lavoro aggiungono peggio al
peggio. A chi lavora in cucina, ad esempio, viene affidata la
responsabilità di dare da mangiare agli studenti lavorando
in spazi ristretti, con controlli sanitari concordati, attrezzature
insufficienti e prodotti in larga parte semilavorati e precotti, spesso
non certificati. Se poi qualcuno si lamenta o semplicemente
c’è bisogno di aumentare la produzione, tutte le
responsabilità e i carichi vengono riversate sui lavoratori:
lavorate di più e meglio.
Di più e meglio perché l’azienda
è tutto, tutto è l’azienda. Lamentarsi
non ha senso pechè la Concerta è una grande
famiglia. O almeno questo è ciò che si tenta di
inculcare ai lavoratori con ogni mezzo, attraverso la celebrazione del
mito aziendale ed una forte pressione di gruppo che porti ad
identificarsi con il marchio. Così come fa chi è
stato scelto per rivestire ruoli di responsabilità, la cui
funzione, nella logica dei “kapos”, è
dare visibilità al potere che deve essere presente anche
quando non lo è. Così da far scattare nei
lavoratori profondi meccanismi identitari, come la sofferta
autoimposizione del silenzio di chi vorrebbe suggerire agli studenti di
scegliere la combinazione di portate più conveniente o di
evitare quel piatto riciclato dagli avanzi del giorno prima.
L’esercizio del potere, del controllo e della gerarchia passa
quindi per l’applicazione sistematica di veri e propri
dispositivi totalizzanti, da quelli più manifesti a quelli
più sottili. C’è il dipendente
richiamato duramente davanti a colleghi e clienti per aver dato troppe
patate ad un ragazzo visto che il contorno da lui richiesto era
terminato e per altro la mensa stava per chiudere.
C’è la lavoratrice punita con ogni tipo di
mobbing, dal demansionamento agli insulti, per aver preso il periodo di
maternità. C’è la cassiera troppo
irrequieta a cui vengono sistematicamente rilevati degli ammanchi di
cassa solo per farle pressione; e poiché non ha modo di
contestare i conteggi, arriva ad autoconvincersi dell'errore, cadendo
nella diffusa torsione identitaria della conversione alla
verità aziendale. C'è il caso della sospensione
lavorativa in occasione della lunga ristrutturazione dei locali:
quattro mesi senza paga e la continua promessa di una pronta riapertura
che ha impedito ai dipendenti di cercarsi nel frattempo un altro
impiego. Ci sono i dipendenti che il giorno dopo aver scioperato si
ritrovano a lavare i piatti o che, circondati da inutili televisori al
plasma e arredamenti ultimo modello, sono costretti a svolgere l'intero
turno in piedi perché evidentemente l'azienda ha deciso di
risparmiare proprio sulle loro sedie. C'è la lavoratrice con
invalidità al 70% che chiede da tempo di passare a mansioni
meno gravose ma con l'unico risultato di farsi licenziare e riassumere
con le nuove certificazioni in modo che la Concerta possa usufruire
degli sgravi fiscali. Le mansioni sono rimaste le stesse, lei va avanti
con continui e degradanti permessi per malattia e soprattutto, quando
non può fare a meno di presentarsi, con gli antidepressivi.
La sintesi è presto fatta. La mensa è selettiva e
si mangia male, i lavoratori vivono una quotidianità fatta
di sfruttamento e angoscia, la Concerta approfitta degli enormi
vantaggi offertigli su un piatto d’argento e fa profitti su
profitti. Completano il quadro Alma Mater e ARSTUD, che si preoccupano
solo di spartire la torta-università scaricando ogni
responsabilità di ciò che accade al suo interno,
e sindacati silenziosi e conniventi in virtù dei soliti
vecchi intrecci con la lega delle cooperative e le aziende
più influenti.
Alla mensa universitaria di Bologna si mangia precarietà
cotta a puntino. Buon appetito
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